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Il 18,5% delle matricole lascia l'Università dopo il primo anno

31 marzo 2009

Disorientati, stanchi e delusi. Già dopo il primo anno. Succede così che (quasi) uno studente su cinque, abbandoni gli studi dopo appena dodici mesi dall'immatricolazione. Perché l'impatto con l'università non è tra i più facili. Aule affollate, professori da rincorrere, piani di studio da realizzare, appuntamenti con tutor da consultare, volumi di oltre duecento pagine da studiare nell'arco di pochi giorni. Senza considerare i costi. Un mix che, secondo quanto pubblicato dall'ultimo rapporto sullo stato dell'università (realizzato dal Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, organo istituzionale del ministero dell'Università e della ricerca), scoraggia moltissimi studenti. Dei circa 285 mila immatricolati delle università statali all'anno accademico 2006-2007, hanno proseguito gli studi circa 232 mila ragazzi, con un tasso di abbandono pari al 18,5%. «Appena incontrano delle difficoltà i giovani scappano», spiega, con un po' di ironia, Luigi Biggeri, professore dell'università di Firenze e presidente del Cnvsu. Poi torna serio: «La motivazione più importante alla base di questo fenomeno è la mancanza dell'orientamento e del tutoraggio».

I ragazzi insomma non hanno le idee chiare sul percorso di studi da intraprendere e nella scelta sono poco aiutati dalle scuole. Non solo. «Una parentesi fondamentale è la politica del diritto allo studio - aggiunge Biggeri - gli studenti fuori sede devono viaggiare, prendere i mezzi pubblici, districarsi nel traffico e nelle difficoltà, anche economiche, che un qualsiasi corso di laurea impone. L'abbandono può essere una conseguenza importante di questo problema». Per qualcun altro però, questo tasso di abbandono è considerato «fisiologico». Basti pensare che da noi è più o meno costante da ormai dieci anni, anche se dopo la riforma del 3+2 le cose sono leggermente migliorate (nell'anno accademico 98-99 era del 20,9% secondo il Cnvsu). Ma dando un'occhiata agli altri Paesi europei, l'Italia ha un tasso di abbandono universitario tra i più elevati. In Olanda ad esempio, si registrano nelle università solo il 7% di mancate iscrizioni dopo il primo anno. In Gran Bretagna appena l'8,6% di iscritti lascia l'università (anno accademico 2006-2007) e in Spagna, dove gli abbandoni al secondo anno sono molto numerosi, si arriva al 15%. I nostri vicini francesi si fermano al 6%.

«Ci sono tre spiegazioni a questo fenomeno - spiega Marino Regini, prorettore dell'università di Milano, che sulle carenze vere o presunte del nostro sistema universitario ha pubblicato il libro Malata e denigrata. L'università italiana a confronto con l'Europa - innanzitutto l'Italia è, insieme alla Spagna, uno dei pochi Paesi a non avere un canale professionalizzante alternativo all'università. Ciò produce l'immissione negli atenei anche di studenti non particolarmente motivati a studi più teorici. Non abbiamo inoltre selezione all'ingresso, se non per alcuni corsi di laurea, e soprattutto abbiamo un sistema di diritto allo studio che è veramente scarso. L'80% dei nostri ragazzi non usufruisce di borse di studio, abbiamo pochissime residenze universitarie e spendiamo appena lo 0,04% del Pil in servizi agli studenti. È chiaro che i nostri ragazzi sono più attratti dei loro coetanei stranieri da qualche lavoretto che consenta loro di mantenersi». E che aumenta la durata degli studi. Da non sottovalutare, poi, il carico di lavoro. «Ancora pochi atenei - aggiunge il presidente del Comitato di valutazione del sistema universitario - fanno studi seri sul carico di lavoro assegnato agli studenti in rapporto ai crediti degli esami. È ora di cambiare le cose».

Completamente diversa la situazione negli atenei «privati» in cui ad abbandonare gli studi sono davvero in pochi (6,5% nel 2007/2008). Una scelta dunque, quella dell'università non statale, che sembra essere più consapevole. Ma non mancano casi di atenei pubblici particolarmente virtuosi: la Bicocca ad esempio, quasi cinquemila immatricolati nell'anno accademico 2006-2007, ha un tasso di abbandono pari al 4,3%. Stessa cosa succede a Bergamo (4,9%) e Trieste (7,9%) e in molti atenei del Centro e del Sud Italia come la Napoli II (5,6%), all'Aquila (8,3%) e a Urbino (6,3%). Al contrario invece, tra le facoltà più «abbandonate» dai ragazzi c'è Scienze matematiche, fisiche e naturali (26,6% per l'anno 2007-2008), Farmacia (23,9%), seguita da Agraria (23,7%) Sociologia (22,6%) e Giurisprudenza (21,5%) con Scienze politiche (20,1%). I dati di ogni singola facoltà però, tengono a sottolineare dal Cnvsu, sono una stima del reale tasso di abbandono. Infatti non prendono in considerazione né i passaggi degli studenti da una facoltà all'altra (ma il totale di ogni università è un dato reale e non stimato), né le immatricolazioni che avvengono «convalidando» le esperienze lavorative. In cui può succedere, dopo appena un anno dall'iscrizione, di passare direttamente alla laurea.

È per questo che si lamenta Franco Cuccurullo, rettore dell'università di Chieti e Pescara che dai dati del Comitato di valutazione risulta l'ateneo italiano con il maggior tasso di abbandono (39,3%). «Questi calcoli sono sbagliati - commenta il rettore - perché comprendono sia i trasferimenti che i riconoscimenti creditizi. Da noi gli immatricolati effettivi per l'anno 2006-2007 sono stati 5.237 e non 7.513 come dice il Miur. L'anno successivo abbiamo avuto 4.564 iscrizioni con un tasso di abbandono effettivo del 13,1% e non del 39,3%». Chi l'università la vive tutti i giorni, e dalla parte degli studenti, invita le scuole a svolgere una maggiore e più puntuale attività di orientamento. «La difficoltà maggiore - spiega al telefono tra una lezione e l'altra Diego Celli, 23 anni, studente del corso di laurea specialistica in giurisprudenza all'università di Bologna e presidente del comitato nazionale degli studenti universitari - è che i ragazzi si iscrivono a un corso di laurea senza sapere effettivamente in cosa consiste. L'orientamento che si fa oggi agli studenti non approfondisce la cosa più importante, ossia cosa si studierà all'università».
Corinna De Cesare

Fonte: Corriere della Sera del 31 marzo 2009

 

 


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