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AperiTurismo con... Marcello, progetto Tribal Networking - Sulle rotte della Sardegna

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2 maggio 2018

Il progetto Tribal Networking – Rotte del Gusto nasce per promuovere, raccontare e valorizzare la cultura, i prodotti e gli operatori dei territori che esplora, creando mappe, documentari, menù, portali web, concerti, mostre fotografiche e festival culturali internazionali. Tra i professionisti che hanno dato vita a questo progetto, provenienti da differenti campi disciplinari (antropologia, alta cucina, fotografia, sviluppo web, web marketing e musica), Marcello Carlotti speaker al secondo appuntamento di #AperiTurismo2018, "sardegna outdoor e alternativa". Ecco cosa ha raccontato a Giulia Eremita.

• Il vostro progetto Rotte del Gusto muove dalla considerazione che la Sardegna è molto più del mare. Che cosa è allora la Sardegna?

Dunque, per rispondere alla sua domanda, vorrei partire da un testo, Orientalism, scritto nel 1975 dall’intellettuale palestinese Edward Said che, al pari del nostro conterraneo Antonio Gramsci e del caraibico Frantz Fanon, costituisce uno dei fari della critica postcoloniale. Una delle più intriganti tesi di fondo di Orientalism può essere così sintetizzata: l’Oriente, in sé, non esiste ma è una narrazione creata ad arte da alcune accademie occidentali su mandato delle varie amministrazioni coloniali per creare un’immagine di un mondo che spazia dal Marocco (che manco a farlo apposta è più ad Occidente di ogni Paese Europeo eccetto l’arcipelago canario per la Spagna e le Azzorre per il Portogallo) e si estende fino a lambire l’India nelle sue vicine Pakistan e Bangladesh (che, come lei ben saprà, furono il frutto di una divisione politico-religiosa della vecchia India). Un territorio sconfinato, differente per storie, tradizioni, culture, lingue e religioni e spesso, ancor oggi, in guerra. Tuttavia, diceva Said, questa immagine Orientalista fu così efficace che finirono per crederci non solo gli abitanti delle nazioni dell’Occidente ma anche gli stessi orientali che, in qualche modo, si orientalizzarono per mettersi al pari con l’immagine che gli altri avevano creato di loro. In modo speculare alle conclusioni del medico Fanon, autore de I dannati della terra e Pelle Nera e Maschere Bianche, o del concetto di Egemonia e subalternità di Gramsci, tutti gli studi postcoloniali confermano la tesi della dinamica Servo-Padrone teorizzata da Hegel e quella dell’alienazione proposta da Marx. Lei dirà: a parte Gramsci, cosa c’entrano tutti questi autori con la Sardegna e con la mia domanda!? Dal mio punto di vista sono inerenti, dato che, dall’invasione romana del 175-174 a. C. guidata da Tiberio Sempronio Gracco, l’isola è passata per oltre due millenni di ininterrotta colonizzazione, sia militare, sia culturale che economica. Anche il famoso periodo giudicale, quello di Eleonora per intenderci, vedeva la nostra isola divisa in quattro giudicati che, amministrativamente e legalmente, facevano capo all’Impero Romano d’Oriente. Cerchiamo, ora, di zoommare sul presente. Si dice che la Sardegna sia coste e mare. Sì, è vero, ci sono anche tombe dei giganti, nuraghe, menhir, dolmen, necropoli, ziqqurrat, ma essenzialmente il turista mette piede sull’isola perché attirato dall’idea di spiagge, sole e acqua cristallina. Chi ha creato questo modello e questa idea propagandandola nel mondo? Se lei chiede in giro, a migliaia di km dalla Sardegna, come per lavoro ho fatto io, in pochi sanno dell’esistenza della nostra isola, ma in tanti conoscono la Costa Smeralda, sanno del Forte Village e alcuni conoscono addirittura il Tanka Village. L’idea di coste e mare, in effetti, ha una sua potenziale data di nascita nella costituzione del consorzio della Costa Smeralda e nell’intuizione di un principe anglo-pakistano (occidentale-orientale) di nome Karim Aga-Kahn. Non sono in molti, però, a sapere che quella che oggi chiamiamo Costa Smeralda, era nota agli autoctoni come Monti di Mola. Ci pensi, stesso territorio, diverse prospettive, diverse letture e diverse finalità. Il principe ha visto la costa, gli autoctoni vedevano il monte. Il popolo sardo, in epoca storica, è stato un popolo di allevatori e contadini, non certo di marinai e, per cultura e tradizione, per i nostri conterranei ed antenati, la sabbia era una cosa inutile, dove non poteva portarsi nulla al pascolo e dove era impossibile coltivare alcunché. Dunque, da antropologo, non posso che affermare che negli ultimi duemila anni, a seguito della dura repressione romana (determinata dal fatto che gli abitanti dell’isola si erano alleati coi cartaginesi durante la seconda guerra punica), che costò la vita a 40.000 maschi adulti e ne ridusse in schiavitù altrettanti, su una popolazione totale di 200.000 unità, i sopravvissuti dovettero adattarsi ad una vita nell’entroterra e svilupparono una cultura essenzialmente dell’entroterra. La Sardegna, pertanto, sia dal punto di vista storico-antropologico, sia da quello turistico è un iceberg bollente di cui conosciamo e mettiamo a frutto solo una punta, seguendo in modo miope l’intuizione di un ricco principe che voleva farne il punto di incontro dei potenti della terra. L’assurdo è che, tanto le classi politiche quanto quelle intellettuali quanto gli operatori del turismo sono ancora, per lo più, sotto questo incantesimo. Pensi solo a questo dato: i giganti di Monti Prama sono stati scoperti nel 1972, tre anni prima della mia nascita, ma sono stati riesumati sono pochi anni fa. Lei sa spiegarmi quale isola, a vocazione turistica, può permettersi di mettere in ghiacciaia una simile scoperta per oltre 40 anni?

Le Rotte del Gusto sono sette, ognuno rappresentata da un colore. Quali aspetti della nostra terra avete considerato nella predisposizione dei diversi itinerari?

Dunque, le rotte sono sette per una serie di ragioni che mi hanno sempre divertito. Anzitutto, il 7 è il mio numero preferito fin da che ho memoria. Tuttavia, 7 sono i giorni della settimana e le note basiche della scala musicale. Ma sette sono anche i colori dell’arcobaleno. Nella tradizione popolare occidentale di matrice nordica, si riteneva che alla fine dell’arcobaleno i nani avessero seppellito una pentola piena d’oro. In anni più recenti, poi, l’arcobaleno ha sostituito nell’immaginario collettivo il ramoscello d’ulivo come simbolo di pace. Inoltre, l’arcobaleno è visivamente un ponte che collega due punti. Infine, esso è il frutto di un fenomeno fisico-ottico: ovvero è la risultante visiva della scomposizione della luce solare. Mi sembravano, questi, tutti elementi utili per andare oltre le marche storiche della Sardegna e riunificarle in macroaree assegnando a ciascuna un colore dell’arcobaleno, per ricomporre l’unitarietà di un’isola che, troppo spesso, parla di identità forte, senza peraltro avere la minima idea della propria storia e affastellando incredibili confusioni. Anche in questo caso, voglio raccontare un aneddoto. Fra i simboli identitari della Sardegna, i sardi di oggi mettono sullo stesso piano i nuraghe e sa limba. A parte il fatto che non esiste una lingua sarda riconosciuta su tutto il territorio (in Gallura, ad esempio, parlano corso … per non citare i soliti casi di Alghero e Carloforte), ma lei si rende conto che i nuraghe sono il frutto architettonico di popolazioni che parlavano una lingua preindoeuropea, mentre le tante varianti di sardo sono la derivazione romanza del latino, ovvero la lingua parlata da quelli che sterminarono i cosiddetti nuragici? Quindi, gli aspetti che ho considerato sono legati ai fiumi, alle coste, ai laghi ed al mio gusto personale per l’interbreeding, oltre alla volontà di provocare una reazione o una domanda come la sua, a cui rispondere perché sono aree che potevano percorrersi a piedi in pochi giorni, senza avere necessariamente una preparazione da ultramaratoneta.

I destinatari del Progetto non sono solo i turisti. È diretto in primo luogo alle comunità locali. Con quale obiettivo?

In parte, a questa domanda, ho già risposto. Se tu non conosci te stesso, la tua storia e le tue risorse, la vedo veramente difficile fare turismo oggi. Prendiamo, però, due esempi concreti. Partiamo con la bottarga. In pochi sanno, o vogliono credere, che essa non sia un prodotto originario della Sardegna (eppure è così, viene dall’Egitto dei Faraoni…). Dunque, pare che alcuni Faraoni fossero molto ghiotti di bottarga, ma dato che all’epoca la pasta non esisteva (bisognerà attendere che i cinesi la inventino e che i commercianti la importino in Europa dove, in Italia, venne fatta col frumento e non col riso), essi la apprezzavano come dessert. Mangiavano, cioè, fichi e bottarga. Quando l’ho scoperto, ho pensato: geniale! Dobbiamo assolutamente fare un dolce con la bottarga. E così ho sfidato lo chef che collaborava con Tribal Networking a inventare un dolce del genere. Dato che ci trovavamo in Costa Verde, gli ho fatto conoscere il caseificio dei fratelli Lampis, sito nei pressi di Funtanazza. L’estate precedente avevo mangiato i loro formaggi e la loro ricotta e pensai che, quest’ultima, poteva aiutare un simile dolce. Alla fine, proprio alla presentazione tenutasi al Consorzio UNO ad Oristano, lo chef si è presentato con dei profiteroles adagiati su medaglioni di fico d’India, con cuore di ricotta di pecora nera di Arbus e cioccolata bianca lavorate con la bottarga, e caramellati esternamente con elicriso e mirto. Facemmo assaggiare agli astanti, e la votazione finale, dopo un iniziale scetticismo generalizzato, fu 10 su 10. Tornai ad Arbus a proporre la cosa al sindaco ed alla giunta e la loro risposta fu, uso un eufemismo, “ma chi mai potrebbe mangiare una simile schifezza?” Il secondo esempio riguarda la Rotta Rosso come il sapore. Il pescatore che ha collaborato con Tribal Networking mi disse che nel lago alto del Flumendosa si potevano pescare i lucci, che come ogni pescatore sa sono il sogno di chi pesca: un luccio può arrivare a pesare oltre 30 kg. Riuscimmo a pescarne due, uno da 9 e uno da quasi 11 kg. Mi sentivo molto giapponese mentre lo chef li lavorava. La carne del luccio è una vera prelibatezza e, al piatto, arriva a costare cifre veramente importanti. In un ristorante locale tenemmo un seminario di cucina, aperto a tutti i ristoratori della zona, per insegnar loro a lavorare il luccio, e lo chef creò due piatti nuovi col luccio ed i prodotti del territorio. Inoltre, il nostro pescatore, si offrì di avvisare alcuni suoi amici nordeuropei della possibilità di pescare il luccio, durante l’inverno, non più in Oceania ma in Sardegna. Queste persone pagano 1.500 € a testa al giorno in un’isoletta del Pacifico per pescare il luccio. Bene, la risposta fu che se i turisti venivano in Ogliastra non dovevano mangiare luccio, ma culurgiones. E in camera caritatis, il proprietario del ristorante che ci ospitava mi disse che a lui il luccio manco piaceva. Ora, quale serio operatore non metterebbe nel suo menù un innovativo dolce alla bottarga o due raffinati piatti col luccio locale, visto anche che sia il primo che gli altri possono essere à la carte a prezzi decisamente alti?

Nella predisposizione degli itinerari avete coinvolto varie discipline e competenze: l’arte, l’antropologia, l’enogastronomia, la fotografia, il digitale, il management, la storia e la musica in coerenza con un’idea di viaggio di tipo esperienziale, sensoriale.  Che domanda intercetta questo tipo di percorso?

Intercetta la curiosità umana. Fatti non fummo a viver come bruti, ma per seguitar virtute e conoscenza, le risponderebbe Dante. La Sardegna non può competere col turismo massivo di altre aree. Sia perché non è facile da raggiungere, sia perché i costi per raggiungerla sono in controtendenza con quelli del turismo massivo. Inoltre, per orogenesi, specificità e tipicità, essa deve volgersi ad un turismo di nicchia che, oggi, è costituito da persone sempre più esigenti e raffinate che cercano una personalizzazione della loro esperienza e non la massificazione. E chi cerca cose esclusive vuole stupirsi, sorprendersi e sentire uno stato di estasi. Vuole provare gusti nuovi, vedere musei interattivi, e, se possibile, dati gli strumenti attuali, vuole partecipare alla creazione di mappe e itinerari, socializzando il proprio punto di vista sia con foto che con commenti. Non è un segmento che risponde alla massima o Franza o Spagna basta che se magna e si spenda poco. È un segmento che vuole individualità personale e possibilità di interazione socializzante ma esclusiva. Chiamiamoli allora non più turisti ma esploratori, siano essi autoctoni siano essi allogeni.

Il viaggio in Sardegna è da intendersi come un momento di incontro, scoperta reciproca e condivisione tra tutti i suoi protagonisti, comunità, turisti, operatori economici, in una continua tensione tra passato e futuro, tradizione e innovazione. Attraverso quali modalità è possibile favorire la fruizione del territorio in questi termini?

Purtroppo, allo stato attuale e senza un serio interessamento dei soggetti istituzionali sia regionali che locali, questo tipo di fruizione non è pienamente possibile. Personalmente, per realizzare i 7 documentari, il portale, le foto e i percorsi, ho fatto quasi 160.000 km in un anno in macchina in Sardegna. Se ci pensa sono 4 volte l’equatore. E l’ho fatto gratuitamente, per dare gambe ad una idea ed un sogno e dimostrare che una contronarrazione della Sardegna non solo è possibile ma anche auspicabile. Poi, come tutti i comuni mortali, sono dovuto tornare coi piedi per terra. Ho visto che alcuni soggetti che avevo invitato a cooperare, in modo tipicamente sardo, invece di cooperare hanno scimmiottato quel che Tribal Networking aveva già realizzato, creando una ridondanza verso il basso. Ma non ci fosse un simile sostrato da scalzare, la Sardegna non verserebbe nelle condizioni in cui attualmente versa: crisi, miopia e incapacità alla sinergia.

L’apertura a forme di turismo sganciate dal balneare che vantaggi porta allo sviluppo della nostra Isola? Quali limiti riscontra?

Penso di aver già risposto a queste domande. Mi permetta di aggiungere che in questi casi, siamo solo noi, abitanti di quest’isola, a crearci delle gabbie limitanti e ad agire come criceti sulla ruota. È chiaro che, laddove riuscissimo a sottrarci all’incantesimo estivo-balneare, si aprirebbe uno scenario socio-economico, ma anche culturale, totalmente diverso: la fruizione dell’isola, per chi la vive e chi la esplora, sarebbe aperta ai diversi cicli stagionali, permetterebbe una più ampia personalizzazione delle esperienze, e consentirebbe una più accurata tutela delle sue innumerevoli ricchezze e una più consapevole tutela del suo territorio. Last but not least, ritengo che essa consentirebbe di invertire la tendenza alla migrazione economica dei circa 7.000 nostri conterranei che, annualmente, prendono un aereo per andare a cercare lavoro altrove. I limiti che riscontro, in parte, li ho già espressi. Tirando qui le somme, sono tare culturali vecchie: superbia, presunzione, invidia e incapacità di esprimere e realizzare un efficace lavoro di squadra, congiuntamente ad una connaturata incapacità imprenditoriale di perseguire strade nuove. Da sardo, quale io sono, mi costa dover dare una simile lettura antropologica della mia terra. Tuttavia, quest’anno compio 43 anni, e sono almeno 25 anni che sento le stesse identiche lamentele e constato che, per risolvere i veri problemi che ci attanagliano, non si fa granché. L’auspicio è che, magari, dalla discussione odierna possano nascere i primi germogli di nuove connessioni e si possa dar seguito ad una più fruttuosa mini-rete di competenze capace di tessere realtà alla materia dei nostri sogni ed aspirazioni.

Marcello Carlotti è uno degli speaker del secondo appuntamento di AperiTurismo.

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