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Viaggio nell'antichità: la Sardegna attraverso le torri, i metalli e il mare

23 marzo 2010

Paolo Bernardini riesce a fare di un manuale di archeologia un bel racconto.

Narrazione colta, documentazione iconografica vastissima, metafora - per la Sardegna una mezza rivoluzione - del viaggio marino. Stiamo parlando di «Le torri, i metalli, il mare. Storie antiche di un’isola mediterranea», edita da Carlo Delfino, con il quale Paolo Bernardini, a lungo direttore archeologo della Soprintendenza cagliaritana e ora docente universitario, raccogliendo i risultati di studi e ricerche decennali, compie un’operazione fortemente innovativa sulla storia antica della Sardegna.

Per chi sentirà crisi di astinenza della forma «manuale» diremo che Paolo Bernardini trasforma il manuale di archeologia in racconto, come gli antichi narratori che, attraverso il mare, facevano girare le storie e costruivano cultura. Un racconto da manuale. Due le edizioni del libro, una severa (in copertina nave fenicia da un bassorilievo assiro), l’altra per ragazzi (un fumetto dalle suadenti tonalità pastello che mostra una costa nuragica). Ma testo ed immagini sono uguali.

La traiettoria si muove fra l’età del Bronzo nuragica e la conquista di Cartagine, fra il XVI e la fine del VI secolo a.C. Un viaggio diretto, mollati gli ormeggi, verso occidente (Capitolo 1, «Navigando verso occidente»), ciò che fa presupporre una partenza orientale. E d’altronde, come sappiamo, il nostro occidente può essere l’oriente di qualcun altro, e viceversa.
Dopo i «Racconti di viaggio. L’isola degli dei e degli eroi, il mare degli incanti», «La Sardegna e i Fenici» e «Il Mediterraneo mutato», il testo giunge, quasi con metafora omerica, all’«Approdo».

Paolo Bernardini è un archeologo dalla formazione eversiva. Succede anche dentro la cosiddetta torre d’avorio. Egli è infatti, in terra di Sardegna, un’orientalista di formazione etruscologa che parla in maniera competente della Sardegna nuragica (come ci dicono le sue incursioni nel mondo aristocratico delle tholoi, in quello dei bronzetti e della statuaria), costruendo anche fruttuose dialettiche con Babay Lilliu, comandante della prima generazione della nostra Sard Trek archeologica.

Si parte con la Sardegna ed i Micenei, dal nome della città paleogreca più potente. Non l’unica, perché la loro presenza, particolarmente significativa nel nuraghe Antigori ma ormai attestata in diversi luoghi dell’isola, si dice micenea ma si legge più facilmente Argo, Creta, Cipro, Vicino Oriente. Il fatto importante è la maturità delle relazioni, il profilo di una Sardegna nuragica tutt’altro che arretrata, in possesso di una stratificazione e una divisione sociale del lavoro: agli antipodi della visione idealizzata di una società selvaggia ed egualitaria, pronta a ricevere gli insegnamenti e le visite interessate dei conquistatori di turno. L’attenzione alla storia come frutto di assetti materiali e relative costruzioni ideali è ben presente qua come altrove, ed è una delle caratterizzanti di questo libro.

D’altro canto il mare era attraversato, con rotta verso oriente, da navi nuragiche. Sino al porto commerciale della grande Festòs, nell’isola di Creta, dove gli scavi di Kommos hanno rivelato significative quantità di «barbarian ware», poi riconosciuta come ceramica nuragica.
Un altro incontro è quello con i discussi Sherden: Bernardini, invitando a non trarre conclusioni troppo stringenti sulla base delle iconografia egiziane, ne colloca la storia formativa in ambito egeo ed orientale, e ritiene plausibile che essi, pirati e guerrieri non necessariamente di unica etnìa, siano approdati in Sardegna fra il XII e l’XI secolo a.C., assieme al flusso di genti Peleset, ciò che a nostro parere spiega, in aggiunta alla più antica tradizione egea, quel timbro orientale che si percepisce nelle iconografie e si innesca con l’altra, grande matrice formativa dei Sardi antichi, quella africana.

Complessità indicata con grande evidenza dalle fonti, trattate in modo approfondito nel secondo capitolo: Sardò, Lybie, Tartessos, Cipro e Tiro fenicia. Melqart ed Heraklès (correttamente richiamato dall’autore nella sua duplicità; e speriamo di non doverlo più chiamare Ercole in tali contesti pre-romani) si sdoppiano e riuniscono, come in un magico gioco di specchi, fra le più antiche e vere colonne ed i mari dell’Egeo e del Vicino Oriente.

Storie poi di nuovo trasmesse in Sardegna, nell’età della colonizzazione e dei nuovi, rivoluzionari sistemi urbani, dai navigatori dell’Eubea, con la scia dei suffissi in «oussa» (Pithekoussa, Ichnoussa, Koutinoussa) e della «Fenicia» (anch’essa, in realtà, plurietnica), assieme a Sulci e Ischia, Malaga e Cartagine, Al Mina e S. Imbenia. L’invito a percorrere i mari, le navigazioni, i racconti è affascinante. Come la lettura del riso sardonico, il «sardànian gelòs» che il vecchio mendicante nelle cui spoglie si nascondeva Odisseo, riservava al principe dei Proci che gli lanciava con violenza una zampa di bue. Eco di una storia e di un ghigno sardo legato agli anziani che Omero probabilmente dovette conoscere.

Quelli qua presentati sono solo alcuni dei numerosissimi spunti. Molte le cose saltate, fondamentali: Monti Prama, la battaglia del Mare Sardonio, la fine dell’incanto e l’inizio dell’imperialismo.
Ma vogliamo aggiungere che lungo i capitoli c’è una forte passione civile per una lettura meticcia, e non nazionalista, della nostra multiforme identità, radicata nella storia e nella scienza.
Nella conclusione Bernardini auspica altri marinai e vede altre vele. Ma noi ci auguriamo che anche la sua nave inizi presto un nuovo viaggio.

 Marcello Madau

Fonte: lanuovasardegna.it del 23 Marzo 2010


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